Ovunque e con chiunque mi trovi
possa io ritenermi inferiore a tutti
e, con sincera intenzione,
possa considerare gli altri come supremi.
La prima strofa ha sottolineato l’importanza di considerare preziosi tutti gli altri esseri senzienti. Nella seconda, si specifica che il riconoscimento della preziosità degli altri esseri senzienti, e il senso di cura che dovete sviluppare su questa base, non devono basarsi su un senso di pietà nei loro confronti o sull’idea che essi siano inferiori. Piuttosto, quello che viene sottolineato è il senso di cura e affetto per gli esseri senzienti come riconoscimento della lora preziosità, basati sul rispetto e la riverenza, come esseri “supremi”. Vorrei ora spiegare come va compreso il concetto di compassione nel contesto buddhista. In generale, nell’ambito della tradizione buddhista, compassione e gentlezza amorevole vengono viste come due facce della stessa medaglia. La compassione è definita come il desiderio empatico che aspira a vedere l’oggetto della propria compassione, l’essere senziente, libero dalla sofferenza. La gentilezza amorevole è l’aspirazione che si augura la felicità degli altri. In questo contesto, invece, il significato di amore e compassione non vanno confusi con il loro significato convenzionale. Proviamo ad esempio un senso di vicinanza nei confronti delle persone che ci sono care; per loro nutriamo sentimenti di compassione ed empatia. Inoltre proviamo per loro un grande amore, tuttavia spesso questa compassione e questo amore sono radicati nell’autoreferenzialità: “Tizio è mio amico”, “lei è mia moglie”, “questo è mio figlio” e così via. Ciò che accade con questo tipo di amore e di compassione, che possono essere davvero intensi, è che sono tinti di attaccamento poiché implicano autoreferenzialità. E dove c’è attaccamento c’è lo spazio in cui rabbia e odio possono sorgere. L’attaccamento va a braccetto con la rabbia e l’odio. Se ad esempio la compassione per qualcuno è sporcata dall’attaccamento, può facilmente trasformarsi nel suo opposto emotivo, anche a causa del più piccolo fraintendimento. E allora, anziché augurarsi che quella persona sia felice, potreste augurarle di essere infelice.
La vera compassione e il vero amore nel contesto dell’addestramento mentale si basano sulla constatazione che gli altri, esattamente come noi, naturalmente aspirano alla felicità e all'eliminazione della sofferenza. L’empatia che si sviluppa verso una persona, basata sul riconoscimento di questo fatto oggettivo, è la compassione universale. Non è intaccata da alcun elemento di pregiudizio, di discriminazione. Questo tipo di compassione può essere estesa a tutti gli esseri senzienti per tutto il tempo in cui proveranno dolore e felicità. Così, la caratteristica essenziale della vera compassione è che è universale e non discriminante. Addestrare la mente nella coltivazione della compassione nella tradizione buddhista, dunque, implica innanzi tutto la coltivazione dell’equanimità, o imparzialità, verso tutti gli esseri senzienti. Potete ad esempio riflettere sul fatto che la tal persona può essere stata - da un punto di vista buddhista - il vostro peggior nemico in una vita precedente. Allo stesso modo, provate a applicare questo tipo di ragionamento a qualcuno che considerare un vostro nemico: sebbene possa essersi comportato male nei vostri confronti e vi sia ostile in questa vita, questa stessa persona potrebbe essere stata il vostro miglior amico in una vita precedente, o un vostro parente e così via. Riflettendo sulla natura mutevole delle relazioni interpersonali e sul potenziale che esiste in ogni essere senziente di esservi amico o nemico, sviluppate l’equanimità.
La coltivazione dell’equanimità implica una forma di distacco, ma è importante capire bene che cosa si intende per distacco. A volte la gente, quando sente parlare di questa pratica, crede che il buddhismo promuova l’indifferenza verso tutte le cose, ma non è così. Innanzi tutto, coltivare il distacco fa emergere l’atteggiamento discriminatorio che abbiamo abitualmente verso gli altri, basato sulla nostra idea di vicinanza o distanza. Si gettano così le basi su cui coltivare una compassione genuina, che può essere estesa a tutti gli altri esseri senzienti. L’insegnamento buddhista sul distacco non implica lo sviluppo di un atteggiamento di disinteresse o di indifferenza verso il mondo o la vita.
Andando a un altro verso della strofa, penso sia importante capire l'espressione “possa io ritenermi inferiore a tutti” nel contesto corretto. Certo non significa che dobbiate coltivare pensieri che vi conducono a una scarsa autostima, o che dobbiate perdere ogni speranza e sentirvi demoralizzati pensando “sono il più incapace di tutti, non so fare niente, non posso fare niente, non ho alcun potere”. Questo non è assolutamente il tipo di inferiorità a cui ci si riferisce in questo caso. L’espressione “ritenersi inferiore” va intesa in senso relativo: in generale gli esseri umani sono superiori agli animali, abbiamo la capacità di distinguere tra il bene e il male, pensare al futuro e così via. Tuttavia si potrebbe ritenere che vi sono alcuni aspetti in cui è l’essere umano ad essere inferiore agli animali: gli animali potranno anche non saper distinguere tra bene e male e non essere dotati di senso morale, non saper valutare le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni, ma nel regno animale c’è perlomeno un certo ordine. Pensate alla savana africana: i predatori cacciano solo per necessità e quando hanno fame. Se non sono affamati, coesistono pacificamente. Gli esseri umani, invece, nonostante la nostra capacità di distinguere tra il bene e il male, a volte agiscono spinti solo dall’avidità. Ci dedichiamo ad attività - come uccidere per sport, andando a caccia o a pesca - per puro divertimento, dimostrando, da un certo punto di vista di essere inferiori agli animali. E’ in questi termini relativistici che dobbiamo guardare noi stessi come inferiori agli altri. Una delle ragioni per usare l’aggettivo “inferiori” è per sottolineare che normalmente, quando ci lasciamo andare a emozioni ordinarie come la rabbia, l’odio, il forte attaccamento e l’avidità, lo facciamo senza alcun freno o controllo. E spesso siamo del tutto inconsapevoli dell’impatto che il nostro comportamento ha sugli altri esseri senzienti. Ma coltivando deliberatamente il pensiero di guardare gli altri come “supremi” e degni della nostra reverenza, vi dotate di uno strumento di controllo. Così, quando le emozioni sorgono, non saranno più tanto potenti da impedirvi di vedere l’impatto delle vostre azioni sugli altri.
E su questi presupposti che si riconoscono gli altri come superiori a voi.