Se esiste un tema per quale l’educazione e i media hanno una particolare responsabilità è, io credo, l’ambiente naturale. Questa responsabilità ha ben poco a che fare con cosa è giusto o cosa è sbagliato, quanto piuttosto riguarda la nostra sopravvivenza.
Il mondo naturale è la nostra casa. Non necessariamente è qualcosa di sacro: è semplicemente il luogo in cui viviamo.
E’ dunque nel nostro interesse averne cura. E’ normale buon senso. Solo recentemente la dimensione della popolazione mondiale e il potere della scienza e della tecnologia sono cresciuti al punto da avere un impatto diretto sulla natura. Detto in altre parole, fino a oggi Madre natura è stata in grado di sopportare le nostre pessime abitudini. Tuttavia siamo arrivati ormai al punto in cui lei non può più tollerare silenziosamente il nostro comportamento. I problemi provocati dai disastri ambientali possono essere visti come la risposta della natura alla nostra condotta irresponsabile. La natura ci sta avvisando che anche la sua pazienza ha un limite.
C’è un luogo che più di ogni altro mostra già le conseguenze della nostra incapacità di essere responsabili nel nostro rapporto con l’ambiente: quel luogo è il Tibet. Non è un’esagerazione affermare che il Tibet in cui sono nato era un paradiso naturale incontaminato. Ogni viaggiatore che abbia visitato il Tibet prima degli anni Cinquanta ne era consapevole.
La caccia non veniva quasi mai praticata, se non in aree remote dove l’agricoltura era impossibile. Invece era consuetudine degli ufficiali di governo di pubblicare ogni anno una dichiarazione sulla protezione dell’ambiente. Nessuno, si leggeva, che sia di origini umili o nobili, può fare del male o far violenza alle creature dell’acqua e selvatiche. Uniche eccezioni: i ratti e i lupi.
Da ragazzo mi ricordo di aver ammirato una gran varietà di specie ogni volta che lasciavo Lhasa. Il mio ricordo più lontano è del viaggio di tre mesi attraverso il Tibet - dal mio villaggio natale di Takster fino a Lhasa, dove a soli 4 anni sono stato proclamato formalmente il Dalai Lama - e della natura selvaggia che incontrammo lungo il cammino.
Immense mandrie di kiang (asini selvatici) e drong (Yak selvatici) che pascolavano liberamente sulle pianure. A volte capitava di vedere mandrie di sfuggenti gowa, le timide gazzelle del Tibet, di wa, i cervi dal muso bianco, o di tso, le nostre maestose antilopi. Ricordo anche il fascino che esercitavano su di me i piccoli chibi, o pika, che si riunivano nelle aree erbose: erano così socievoli! Mi piaceva osservare gli uccelli: le imponenti gho (le aquile barbute) volare alte sopra i monasteri per poi appollaiarsi sulle montagne; gli stormi di anatre (nangbar) e qualche volta, di notte, sentire il richiamo del wookpa (il gufo).
Persino a Lhasa era impossibile sentirsi tagliati fuori dall’ambiente naturale. Nella mia stanza in cima al Potala, il palazzo invernale dei Dalai Lama, da bambino ho trascorso un’infinità di ore studiando il comportamento dei khyungkar dal becco rosso che nidificavano nelle crepe dei muri. E dal Norbulingka, la residenza estiva, spesso ho visto coppie di gru dal collo nero che vivevano negli acquitrini lì vicino: per me rappresentavano l’emblema dell’eleganza e della grazia.
Per non dire poi della rigogliosa bellezza della fauna tibetana: gli orsi e le volpi di montagna, i lupi, i leopardi delle nevi, le linci che spaventavano a morte i contadini, o il panda gigante dal muso gentile, che nasce proprio al confine tra Tibet e Cina.
Purtroppo oggi questa ricchezza di vita selvatica non si trova più. In parte a causa della caccia, ma soprattutto per la scomparsa del loro habitat: ciò che rimane dopo mezzo secolo di occupazione del Tibet è una frazione minima di quello che c’era un tempo. Senza eccezione, ogni tibetano con cui ho parlato che era riuscito a tornare in Tibet dopo trenta o quarant’anni, mi ha raccontato della tremenda penuria di fauna selvatica. Là dove una volta gli animali selvatici si avvicinavano persino alle abitazioni oggi è quasi impossibile vederne.
Altrettanto impressionante è la devastazione delle foreste del Tibet. In passato le colline erano ricoperte di boschi, oggi chi è tornato laggiù le descrive come fossero teste di monaci: completamente rasate. Il governo di Pechino ha ammesso che le tragiche alluvioni della Cina occidentale fino alle campagne sono in parte dovute a queste deforestazioni. E di nuovo, mi raccontano di convogli di fuoristrada che 24 ore su 24 trasportano tronchi fuori dal Tibet. Tutto ciò è particolarmente grave, visti anche la conformazione orografica del paese e il clima severo. Ripristinare boschi e foreste implicherebbe cure e attenzioni continue. Ma di questo non c’è traccia.
Non si può certo affermare che noi tibetani, storicamente, siamo stati intenzionalmente degli ambientalisti. Non lo eravamo. Semplicemente non avevamo idea di che cosa potesse essere l’inquinamento né che sarebbe potuto capitare anche a noi. Diciamo piuttosto che eravamo un po’ viziati: una popolazione così poco numerosa, distribuita in un’area davvero vasta, dall’aria asciutta e pulita e con abbondanza di acqua pura di montagna. Convinti che tutto sarebbe stato sempre lindo e pulito, una volta in esilio siamo rimasti sconvolti nello scoprire che esistono, per esempio, corsi d’acqua non potabile. Indipendentemente da ciò che facevamo, Madre Natura tollerava il nostro comportamento da figli unici. Il risultato però è stato che non avevamo una comprensione precisa della pulizia e dell’igiene, le persone sputavano o si pulivano il naso tranquillamente per strada senza pensarci due volte. Ricordo uno dei miei vecchi Khampa, un ex soldato della mia scorta, che aveva l’abitudine di venire ogni giorno a circombulare la mia residenza di Dharamsala (si tratta di un gesto di devozione popolare). Sfortunatamente soffriva di bronchite cronica, i cui effetti venivano peggiorati dai bastoncini di incenso che portava con sé. A ogni angolo, si doveva fermare per tossire ed espettorare così violentemente che alle volte mi chiedevo se venisse lì per pregare o per sputare in giro!
Col passare degli anni, fin dal nostro primo arrivo in esilio, ho preso molto a cuore le questioni ambientali. Il governo tibetano in esilio ha dedicato particolare attenzione nello spiegare ai nostri bambini le loro responsabilità in qualità di ospiti di questo fragile pianeta. In particolare, sottolineo sempre la necessità di tenere in considerazione in che modo le nostre azioni se danneggiano l’ambiente danneggiano anche gli altri. Ammetto che spesso è difficile giudicare. Non possiamo dire con assoluta certezza quale potrebbe essere, ad esempio, l’effetto ultimo che la deforestazione avrà sul suolo e sul clima, per non dire poi delle conseguenze a livello globale. Il solo fatto certo è che noi esseri umani siamo l’unica specie che ha il potere di distruggere la terra per come la conosciamo. Gli uccelli non hanno questa capacità, né gli insetti, né altri mammiferi. Ma se abbiamo la capacità di distruggere la terra, significa anche che abbiamo la capacità di proteggerla.
E’ essenziale trovare metodi di produzione che non devastino la natura, limitare il disboscamento e ridurre il consumo delle già limitate risorse naturali. Non sono un esperto in questo campo e non sono in grado di suggerire in che modo sia giusto procedere. So solo che è possibile con la dovuta determinazione. Per esempio, durante una visita a Stoccolma qualche anno fa, ricordo di aver sentito dire che per la prima volta dopo tantissimo tempo i pesci stavano ripopolando il fiume che attraversa la città, dopo essere quasi scomparsi a causa dell’inquinamento prodotto dalle industrie. Questo traguardo non è certo avvenuto facendo chiudere le fabbriche locali! In Germania ho visitato uno stabilimento industriale che non inquina. E’ chiaro dunque che le soluzioni per limitare i danni che arrechiamo alla natura senza per questo rinunciare alle attività umane esistono.
Ma questo non significa che dobbiamo confidare esclusivamente nella tecnologia per risolvere i nostri problemi, né che possiamo permetterci di continuare a crearn di nuovi in attesa che si trovi una qualche soluzione tecnologica. Non sono la natura e l’ambiente a dover essere modificati, è il nostro atteggiamento nei loro confronti che deve cambiare. Mi chiedo se, nel caso di enormi disastri ambientali come quelli che hanno causato l'effetto serra, una soluzione possa esistere, almeno in teoria. E supponendo che esista, dobbiamo chiederci se sarebbe praticabile nelle dimensioni necessarie. E a che prezzo, in termini di costi e di risorse naturali? Temo inarrivabili!
Esistono già molti altri ambiti - come gli aiuti umanitari per contrastare la fame nel mondo - in cui mancano i fondi necessari per il lavoro che andrebbe fatto. Dunque, anche ipotizzando che i fondi possano essere trovati, sarebbe comunque moralmente inaccettabile una simile discriminazione: un enorme dispendio di denaro per permettere alle nazioni industrializzate di continuare a comportarsi in modo nocivo per l’ambiente, mentre in altre parti del pianeta la gente muore di fame.
Tutto questo non fa che sottolineare la necessità di riconoscere la dimensione globale delle nostre azioni e sulla base di questo riconoscimento, adottare una certa moderazione.
Il bisogno di moderazione si dimostra in modo lampante quando prendiamo in considerazione la propagazione della nostra specie. Sebbene dal punto di vista di molte religioni, più esseri umani e meglio è, e nonostante alcuni recenti studi ipotizzino un’implosione demografica nel prossimo secolo, penso che non si possa continuare a ignorare questa istanza. Come monaco, forse non è appropriato che io mi occupi di questi argomenti, ma ritengo che la pianificazione familiare sia molto importante. E con questo non intendo dire che non si debbano fare figli: la vita umana è preziosa e le coppie dovrebbero avere figli a meno che non vi siano ragioni valide per non averne. L’idea di non avere figli al solo scopo di godersi la vita senza tante preoccupazioni o responsabilità è piuttosto sbagliata, secondo me. Allo stesso tempo, le coppie hanno il dovere di valutare l’impatto che la nostra numerosità ha sull’intero pianeta. Soprattutto in considerazione delle moderne tecnologie.
Per fortuna sempre più persone sono consapevoli dell’importanza dell’etica come mezzo per assicurarsi un posto sicuro e salutare dove vivere. Per questo sono ottimista e penso che ulteriori disastri possano essere evitati. Fino a poco tempo fa, poche persone tenevano in considerazione l’impatto delle attività umane sul nostro pianeta. Oggi invece esistono persino partiti politici che hanno questo come obiettivo fondamentale. Inoltre, il fatto che l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, le foreste e gli oceani che permettono l’esistenza di milioni di forme di vita e i modelli climatici che governano il tempo vadano ben al di là dei confini nazionali sono motivo di speranza. Perché nessun paese, poco importa se ricco o povero, potente o debole, può esimersi dal farsi carico di questa responsabilità.
Finché anche una sola persona si preoccupa, i problemi derivanti dalla nostra negligenza verso l’ambiente naturale saranno un potente promemoria del fatto che tutti abbiamo un contributo da dare. E anche se l’impatto del singolo può non essere decisivo, l’effetto combinato delle azioni di milioni di persone lo sarà senz’altro. Ciò significa che coloro che vivono nei paesi industrializzati devono seriamente prendere in considerazione di cambiare il proprio stile di vita. E non è una semplice questione etica. Il fatto che la popolazione del resto del mondo abbia lo stesso diritto di veder migliorare i propri standard di vita è in un certo modo più importante che la preservazione dello stile di vita dei più ricchi. E se ciò deve avvenire senza scatenare irrimediabili violenze contro la natura, e con inevitabili conseguenze negative per la felicità di chi in questo mondo ci abita, i paesi più ricchi devono dare l’esempio. Il prezzo da pagare per il pianeta, e di conseguenza per l’umanità tutta, di stili di vita ormai non sostenibili è semplicemente troppo alto.
Estratto da “Saggezza antica per un mondo moderno: un etica per un nuovo millennio” di Tenzin Gyatso, il Quattordicesimo Dalai Lama.